Storia: La biodiversità che conosciamo oggi è un’eredità del colonialismo

Più a lungo una colonia è stata sotto l’influenza straniera, più la sua biodiversità somiglia a quella di altre colonie conquistate dallo stesso Paese. Ed è un problema.

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    Lo sbarco di Cristoforo Colombo a San Salvador (Bahamas) nel 1492, in un quadro ottocentesco del pittore statunitense Frederick Kemmelmeyer. Everett Collection / Shutterstock

    In America i conquistadores cercavano l’oro, ma scovarono un altro tesoro: i prodotti alimentari. Non furono, però, solo le primizie americane a sbarcare in Europa: cereali come riso e frumento, legumi di antica tradizione come le lenticchie, e gli agrumi, originari del Mediterraneo, fecero il percorso inverso, rivoluzionando le abitudini alimentari americane.

    Quando il 12 ottobre 1492 Cristoforo Colombo sbarcò ai Caraibi, infatti, diede il via al più imponente rimescolamento di biodiversità indotto dall’uomo prima della globalizzazione. Un processo che sarebbe proseguito con i vari imperi coloniali che hanno dominato il mondo fino ai primi del Novecento.

    DOPPIO CANALE. Riso e altri cereali viaggiarono a bordo delle navi provenienti dall’Europa e dirette al Nuovo Mondo, dove erano specie “aliene”. Proprio come i virus di vaiolo, morbillo e altre malattie, ignoti ai sistemi immunitari dei nativi americani. Pomodori, mais, patate, tabacco, cioccolata e molto altro salparono invece dalle “Indie occidentali” verso l’Europa e il resto del mondo.

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    Sulla stessa rotta arrivarono il fico d’India, originario del Messico e oggi tipico del paesaggio mediterraneo, e la robinia (Robinia pseudoacacia), originaria del Nord America e importata in Europa nel Seicento come albero ornamentale, poi diventata specie invasiva dei nostri boschi (si stima che in Gran Bretagna il costo per attenuare l’impatto di questa pianta sul resto della vegetazione sia tra i 5,4 miliardi di sterline e 13,7 miliardi di sterline dal 1976 a oggi). Le palme da dattero di Egitto e Mesopotamia sbarcarono in Europa con gli Arabi dopo l’VIII secolo. Insieme alle arance, poi diffuse dai portoghesi nel XVI secolo. Questa ridistribuzione “forzata” delle specie, infatti, divenne un fenomeno globale quando gli europei iniziarono a stabilire imperi coloniali in tutto il mondo alla fine del XV secolo.

    ERRORE UMANO. Ecco, dunque, perché anche quando ci troviamo migliaia di chilometri da “casa” possiamo individuare delle specie che crescono anche nei nostri giardini. L’uomo, muovendosi in tutto il mondo, ha diffuso specie aliene, ben oltre le loro aree native, che si sono evolute e radicate profondamente nel territorio, come i peperoncini sudamericani in tutta l’Asia e la patate in Germania e in Belgio.

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     A Stellenbosch, una città del Sudafrica,  per esempio, c’è una presenza massiccia di querce europee: furono importate secoli fa al fine di sfruttare il loro legno per la produzione di botti in cui conservare il vino, ma la differenza di clima rispetto all’Europa, ha fatto sì che gli alberi crescessero troppo velocemente, rendendo il legno inadatto alla conservazione del prezioso nettare che si produce da queste parti.

    Le querce si sono diffuse rapidamente e ora sono il simbolo di questa città, che si trova a migliaia di chilometri da dove questa vegetazione ebbe origine.

    LA TOMBA DELLA BIODIVERSITÀ. Ma quanto ha influito il colonialismo in questo processo? Se lo sono chiesto due ricercatori, Bernd Lenzner (Università di Vienna) e Guillaume Latombe (Università di Edimburgo) che hanno pubblicato i risultati del loro studio sulla rivista Nature Ecology and Evolution. Analizzando la flora aliena dei più grandi imperi europei della Storia: britannico, spagnolo, portoghese e olandese, hanno dedotto che più a lungo una potenza coloniale ha dominato una regione, più simile sarà la vegetazione del territorio rispetto alla madrepatria e agli altri domini di una stessa nazione.

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    Questo si spiega col fatto che gli imperi europei stabilivano rigide politiche commerciali preferenziali per assicurarsi che le merci e le piante fossero scambiate principalmente tra le regioni che avevano colonizzato. Col tempo, ciò ha portato all’accumulo di vegetazioni aliene simili tra le colonie, specialmente nelle regioni occupate per lungo tempo.

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    Vista dei Kew Gardens (Londra), in un’illustrazione ottocentesca. © Morphart Creation / Shutterstock

    SCAMBI (NON SOLO) COMMERCIALI. I motivi che hanno portato a questa ridistribuzione “forzata” sono molteplici: nella fase iniziale dell’espansione europea, esploratori e coloni importarono piante per assicurarsi che i loro insediamenti avessero cibo a sufficienza per resistere. In un secondo momento, furono introdotte specie aliene specie anche per motivi estetici e per attenuare la nostalgia di casa. Durante il XIX e l’inizio del XX secolo, lo scambio globale di specie vegetali si intensificò per favorire lo sviluppo di giardini botanici (al suo culmine, l’Impero britannico, ne contava più di 100, tra cui i Kew Gardens di Londra) o per la ricerca medico-scientifica.

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    PERCHÉ DOVREMMO PREOCCUPARCI? L’introduzione di specie aliene invasive modifica radicalmente gli ambienti in cui si diffonde. Capire quali specie aliene diventeranno invasive è una delle grandi sfide del futuro, perché spesso l’impatto negativo sull’ambiente si manifesta molto tempo dopo. E se, ancora oggi, possiamo osservare l’eredità a lungo termine del colonialismo europeo, non possiamo fare a meno di pensare quanto l’attuale commercio globale influenzerà la biodiversità in futuro.

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