Antiche ricette: Ghiri, Cicogne, Gru quando nel piatto finivano gli animali più strani

di Alessandro Marzo Magno

«Chichibio acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l’odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia. […] Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede». Molti il cuoco Chichibio se lo ricorderanno dai tempi di scuola, quando si studiava il “Decameron” di Giovanni Boccaccio. La novella si apprezza ancora, invece oggi nessuno si sognerebbe di mangiare una gru. Eppure l’elenco del «mangiamolo strano» che ci viene dal passato sarebbe lungo assai.

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I nobiloni dell’Alto medioevo (prima del Mille) dovevano mangiare animali grossi per dimostrare di essere grossi pure loro. Sui deschi finivano orsi, cervi, cinghiali e soprattutto la preda più ambita: l’uro, il bue primigenio, un bove molto più grande e più cattivo dei suoi discendenti domestici. L’ultimo uro è stato ammazzato nel Seicento in Polonia. Nel frattempo però gli aristocratici avevano cambiato dieta: da guerrieri si erano trasformati in cortigiani e quindi ambivano a mangiare ciò che nella gerarchia animale rispecchiava il loro status. Stavano in alto nella società e quindi si nutrivano di ciò che stava in alto nel regno animale: i volatili. Ogni tipo di uccello: sulle tavole nobiliari finivano non solo le gru, ma anche cicogne, rondini, cormorani, cigni, aironi; non i tacchini, ovviamente, perché non erano ancora arrivati dall’America, ma si arrostivano allegramente i pavoni per poi portarli in tavola ricoperti del loro sontuoso piumaggio. Bartolomeo Scappi, cuoco di papa Pio V, nella sua “Opera” (1571) fornisce ricette sia per le gru, sia per le cicogne.

I romani, invece, apprezzavano assai i ghiri: ce lo racconta Apicio, autore del “De re coquinaria”, il celebre testo di gastronomia classica: «Riempi i ghiri con salsicce di maiale e con altro membro dello stesso ghiro, con pepe, pinoli, laser, salsa. Cucili e mettili in forno in una casseruola o cuocili in un tegame» (il laser è una pianta estinta che cresceva a Cirene, nell’attuale Libia, simile al finocchietto). Gli animaletti venivano allevati in vasi di terracotta ventilati, in modo che non potessero muoversi; opportunamente ingozzati di cibo, ne risultava una palla di carne tenera e succosa che mandava in visibilio i ghiottoni romani. In Italia la caccia al ghiro è vietata dagli anni Ottanta, ma non è difficile trovare istruzioni su come cuocerli in ricettari pubblicati in precedenza, così come per gli scoiattoli, pure quelli destinati a finire in pentola.

Se qualcuno volesse osare, in Slovenia e Croazia questi cibi sono legali e quindi chi sta per andare in vacanza oltreconfine e abbia voglia di provare forti emozioni, può fermarsi dalle parti di Fiume (Rijeka): nel ristorante del castello di Tersatto (Trsat) cuociono i ghiri, sul Monte Maggiore (Učka) ammanniscono l’orso.
Gli inglesi, lo sappiamo, chiamano con disprezzo i francesi «mangiarane» perché loro non oserebbero mai nutrirsi di batraci, così come i romani per sottolineare quanto i burgundi fossero barbari dicevano che mangiavano carne di cavallo (su questo gli inglesi di oggi sarebbero d’accordo con in romani di un tempo). Il risotto alla certosina, con rane, lumache e gamberi di fiume, oggi è considerato una leccornia, all’epoca era il massimo del minimo: animaletti che neanche occorreva cacciare, bastava raccogliere, e perciò erano concessi anche ai più modesti fra i monaci, i certosini, appunto.

Origine del Pandoro
Se quel che si mangiava non era strano in sé, lo si rendeva strano acconciandolo. Il massimo era ricoprire gli alimenti con l’oro, suprema ostentazione di ricchezza. Durante le nozze di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d’Este, celebrate a Bologna il 29 gennaio 1487, tra le tante stramberie (castelli di zucchero con dentro uccelletti vivi) arrivano in tavola anche maialini coperti d’oro e con una mela in bocca. Si usava ricoprire d’oro pure le pagnotte e il nome pandoro deriva proprio da questo. Ecco quindi che Gualtiero Marchesi, quando ha proposto il risotto alla milanese con foglia d’oro, non ha fatto altro che rielaborare, seppur inconsapevolmente, un uso rinascimentale.

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